Volevano il Made in Italy su prodotti fatti in Romania. La Cassazione dice no.

Per la Corte di Cassazione – sentenza n. 3789 depositata (Cfr. 2.02.2015) – una scarpa non può riportare la dicitura «made in Italy» se la cucitura della stessa si svolge all’estero, nel caso di specie in Romania.
La legge 166/2009 ha imposto criteri stringenti al fine di rendere ancora più rigorosa la tutela dei consumatori stabilendo che, diciture quali “made in Italy”, “100% Italia” e simili possono essere apposte su un prodotto esclusivamente qualora lo stesso sia stato interamente realizzato sul territorio italiano. Lo ha ribadito la Cassazione nella sentenza 3789/15.

IL CASO – Il Tribunale di Udine aveva assolto per insussistenza del fatto i due imputati in ordine al reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, perché in qualità di legali rappresentanti di una ditta avevano importato dalla Romania, ai fini di commercializzazione, 106 paia di scarpe, che, pur non essendo originarie dall’Italia, recavano la stampigliatura Made in Italy. Il Tribunale sosteneva che la mera delocalizzazione di alcune fasi della lavorazione non valeva ad alterare l’origine nazionale del prodotto.

La Cassazione annullava la sentenza e rinviava la causa alla Corte d’appello, la quale riconosceva la responsabilità penale degli imputati e li condannava alla pena di euro 4.000,00 di multa ciascuno. Contro la decisione entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione. Il Collegio ha ritenuto tale motivo infondato. Infatti, ritiene che con logico e corretto ragionamento la sentenza impugnata abbia considerato la fase della lavorazione compiuta all’estero (ossia la cucitura della suola alla tomaia) un segmento del ciclo produttivo di non trascurabile rilievo. Tale cucitura costituisce quella fase della lavorazione specificamente destinata ad assicurare la robustezza della scarpa e a preservarne la durata, incidendo così su qualità ritenute essenziali in relazione al tipo di prodotto in esame.

I ricorrenti in Cassazione lamentavano il fatto che questa fase di cucitura consisterebbe in «una banalissima e insignificante percentuale del processo di realizzazione dei prodotti tale da non inficiare in alcun modo la relativa qualità e da escludere il ricorso di alcuna induzione in inganno del pubblico dei consumatori». La Cassazione rispetto a questa teoria è stata di diverso avviso, ribadendo il contenuto delle sentenza n. 14958 del 2011 che già aveva annullato la sentenza del tribunale di Udine favorevole ai due imprenditori. A cui era poi seguita la sentenza di condanna della corte d’appello di Trieste che la Cassazione ha confermato.

I giudici supremi hanno utilizzato come normativa di riferimento l’articolo 4 comma 49 della legge 352/2003, in relazione all’articolo 517 del Codice penale (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) il quale punisce l’applicazione della stampigliatura «made in Italy su prodotti e merci non originari dell’Italia, ai sensi della normativa europea sull’origine contenuta nel regolamento Cee 2913 del 12 ottobre 1992, istitutivo del codice doganale comunitario secondo cui «il Paese di origine di un prodotto è quello nel quale è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale economicamente giustificata ed effettuata da un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione». 

Grazie all’apposizione della scritta Made in Italy, l’acquirente è indotto a ritenere che la scarpa sia interamente concepita e fabbricata in Italia, pertanto, l’applicazione di tale scritta sulle scarpe deve considerarsi effettivamente tale da indurre in errore l’acquirente circa l’origine, la provenienza e la qualità del prodotto. La Corte territoriale ha correttamente sottolineato, altresì, come il legislatore di recente abbia reso ancora più rigorosa la tutela apprestata ai consumatori, imponendo, con l’art. 16 del d.l. n. 135/2009 convertito nella l. n. 166/2009, il vigore di criteri ancora più stringenti di quelli previsti dal Codice Doganale Comunitario, stabilendo che «diciture quali made in Italy, 100% Italia e simili possono essere apposte su un prodotto esclusivamente qualora lo stesso sia stato interamente realizzato sul territorio italiano». Alla luce di tali argomentazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

E’ una sentenza importante quella della Cassazione  che ha posto l’accento sull’importanza di proteggere il consumatore dall’utilizzo ingannevole di diciture come MADE IN ITALY. Usare il marchio MADE IN ITALY quando un prodotto è fatto anche parzialmente all’estero significa prendere in giro milioni di italiani che stanno soffrendo per la mancanza di lavoro e raggirarli per vendere loro un prodotto che di fatto di lavorazione fatta in Italia ha ben poco.

COME PUO’ IL CONSUMATORE ESSERE SICURO CHE UN PRODOTTO SIA VERO MADE IN ITALY? – PRETENDENDO LO STABILIMENTO DI PRODUZIONE IN ETICHETTA

Sull’etichetta dovrebbe essere obbligatorio indicare lo stabilimento di produzione anche su tutti i prodotti alimentari e non proprio perché il consumatore deve sapere dove e chi fa un prodotto e non solo chi lo rappresenta legalmente. Se si dichiara che un prodotto è MADE IN ITALY in qualsiasi momento si deve poter verificare che il ciclo di produzione e lavorazione della materia prima avvenga in Italia.

Intanto in tema alimentare ci sono segnali incoraggianti perché venga reintrodotto l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione in Italia, per far conoscere DOVE e CHI fa un prodotto. Possiamo infatti grazie all’ART. 39.1 del Reg.Europeo 1169/2011 introdurre come lo era prima del 13 dicembre 2014 con il D.Lgs 109/92 l’obbligo di indicare lo stabilimento produttivo e procedere poi più forti per andare in Europa e modificare il regolamento Europeo introducendo l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione anche in tutta Europa. Solo così si difende veramente il MADE IN ITALY e la TRASPARENZA per il consumatore.

Made in Italy